Il 1968 in Svizzera

Dei giovani davanti a una grande bandiera della  'Repubblica autonoma'.
Giovani in posa, il 29 dicembre 1970, a Zurigo, con la “bandiera” della “Repubblica autonoma del Bunker”. L’assemblea plenaria del Centro autonomo giovanile del Lindenhofbunker aveva deciso di rispondere con la fondazione di uno staterello alle minacce del municipio di chiudere il centro.

(Keystone)

In Svizzera il movimento del ’68 prese avvio il 29 giugno. In gioco c’era un centro giovanile autonomo. Uno sguardo alla storia dei centri giovanili mostra che avrebbero dovuto portare nel paese una gioventù socialmente accettabile, mentre in realtà portarono lezioni di democrazia.

Nella calda notte dal 29 al 30 giugno 1968, a Zurigo si scatenò il putiferio: volarono sassi, bottiglie, catene, ricevitori telefonici strappati nelle cabine pubbliche e vasi di fiori. Con un’azione di volantinaggio, nella capitale economica della Svizzera, era stata convocata una manifestazione. La sera la folla era cresciuta fino a superare le mille persone e aveva paralizzato il traffico. La polizia intervenne con manganelli e idranti e la situazione degenerò.

Gli scontri davanti all’ex edificio dei grandi magazzini GlobusLink esterno a Zurigo ancora oggi sono considerati il punto di partenza del movimento del ’68 in Svizzera. La manifestazione era stata indetta per protestare contro il rifiuto del comune di mettere quell’edificio, situato vicino alla stazione centrale di Zurigo, permanentemente a disposizione come centro giovanile autonomo.

Dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’80, l’idea che i centri potessero essere gestiti dai giovani stessi generò una grande forza politica in tutta la Svizzera. A Ginevra, Losanna, Bienne, Basilea, ma anche in piccoli comuni, si combatté per i centri autonomi.

Centri educativi camuffati

Gli esordi del movimento dei centri giovanili furono tuttavia modesti: il primo centro giovanile del paese nacque all’Esposizione nazionale svizzera del 1939 e non fu affatto autonomo. Serviva a “educare i giovani confederati”: c’era una teca in cui gli scout invitavano ad escursioni, sale di musica con strumenti a disposizione di ognuno, un laboratorio per il tempo libero in cui si potevano fare interessanti attività.

Edificio adibito a centro giovanile.
Il primo centro giovanile della Svizzera, creato nel 1939 per l’Esposizione nazionale.

(Keystone)

L’obiettivo dei primi centri giovanili era di tener lontano i giovani dai “cattivi” intrattenimenti: discoteche, cinema e ristoranti. L’Associazione ferie e tempo libero di Zurigo, nel 1949, riteneva che un centro giovanile dovesse “creare sane strutture educative e di intrattenimento, che corrispondessero allo spirito imprenditoriale dei giovani, rafforzassero il loro carattere e consentissero ai genitori di sapere che i loro figli e le loro figlie lì erano in buone mani”.

Lezioni di charme per i rocker

Nel 1959 fu inaugurato a Zurigo il primo luogo d’incontro per i giovani, il Drahtschmidli. Per molti giovani rappresentò comunque un arricchimento: da qui nacquero giornali scolastici, progetti fotografici e amicizie. Fin dall’inizio, tuttavia, i dirigenti adulti cercarono di coinvolgere i cosiddetti “giovani outsider” in una rotta di collisione con la società.

Venivano convocati personalmente dalla polizia “teppisti” – giovani che ascoltavano il rock’n’roll e giocavano a flipper nei bar. Nel centro giovanile si voleva formare il loro carattere e tramite corsi intitolati per esempio “Chic e Charme” si cercava di portare i ragazzi in blue-jeans verso una moda più ragionevole. Il centro giovanile era di fatto un’istituzione educativa mascherata da struttura per il tempo libero.

Parte dei giovani, tuttavia, richiedevano luoghi che potessero gestire da soli, senza supervisione, e che offrissero più spazio, ad esempio per concerti. Dopo una lunga lotta, alla fine di ottobre 1970, a Zurigo fu inaugurato il primo centro giovanile autonomo, in un rifugio antiaereo della seconda guerra mondiale. Le autorità cittadine permisero persino che rimanesse aperto tutta la notte, nel caso in cui più di dieci giovani volessero continuare le discussioni.

giovani seduti in mezzo a un fiume

DOSSIER

dossierIl 1968 in Svizzera

Nuova sinistra, musica pop, non conformisti e pacifisti: immersione in un’epoca colorata e movimentata.

Questo portò però presto a regolari pernottamenti nel bunker. L’opinione pubblica denunciò la frequentazione del bunker da parte di minorenni, il consumo di alcol e droghe e il rumore. Inoltre, serpeggiava il timore che vi si mescolassero agitatori di estrema sinistra con uno “spirito orgiastico”. L’odore dello scandalo era nell’aria e il bunker si ritrovò presto ai ferri corti con le autorità. In dicembre era già in procinto di chiudere.

Rapida fine di uno stato libero

Nella notte di San Silvestro 1970-71 i giovani del bunker zurighese dichiararono il centro quale territorio fuori dalla “società capitalista” e dalla Svizzera: diventava Repubblica Autonoma del Bunker. L’obiettivo era una gestione collettiva, con assemblee plenarie in cui si sarebbero adottate decisioni sulle sorti dello Stato.

Nel giro di quattro giorni, oltre duemila giovani si iscrissero al “controllo abitanti” e acquisirono il “passaporto”. Ma dopo una settimana il libero Stato era finito: il 6 gennaio 1971, la polizia circondò l’edificio e l’esperimento del Lindenhofbunker si concluse. Oggi ospita il Museo della polizia della città di Zurigo.

due giovani dipingono un cartello con la scritta: 'Autonome Republik Bunker'
Due giovani il 29 dicembre 1970 dipingono su una parete a Zurigo lo “stemma” della “Repubblica autonoma del Bunker”.

(Keystone)

Il sogno del bunker era infranto anche per altre aspettative. Il centro giovanile era diventato rapidamente un punto focale per i giovani che avevano rotto i ponti con le famiglie o con gli istituti in cui si trovavano allora: ragazzi che avevano semplicemente bisogno di qualcuno con cui parlare o che avevano problemi di droga.

L’associazione di pubblica utilità “Speak Out”, anch’essa nata dal movimento del 1968, nel bunker forniva per la prima volta un servizio di consulenza autogestito per i giovani su vasta scala e presto si ritrovò sovraccarica. Nel contesto sperimentale del centro giovanile era apparso chiaramente con quali problemi i giovani dovevano lottare. Quale reazione, l’anno successivo furono fondate le prime istituzioni comunali di consulenza per i giovani.

Il centro superstite

Il fatto che un simile esperimento possa anche avere successo è dimostrato dall’ultimo centro giovanile autonomo: quello a Bienne, nel cantone di Berna, che esiste ancora oggi. Negli anni ’60, dei complessi pop locali erano regolarmente confrontati con una carenza di spazio in città. Nei piccoli ristoranti dove potevano suonare, venivano mandati via quando la musica non era gradita dai clienti abituali. Quanto ai grandi locali solo grandi organizzatori commerciali se li potevano permettere.

dei giovani seduti a un tavolo davanti al Centro autonomo giovanile a Bienne.
Giovani davanti al Centro autonomo giovanile “La Coupole” a Bienne.

(Keystone)

Nel luglio 1968, dopo gli scontri davanti all’ex Globus di Zurigo, l’idea di un centro giovanile autonomo si fece largo anche a Bienne. Come sito fu scelta la cupola di un vecchio gasdotto, che stava per essere demolita.

Il timore di disordini come a Zurigo favorì le simpatie delle autorità locali. Tuttavia, si dovette ancora aspettare fino al 1970, nel corso di un sit-in, prima di ricevere l’autorizzazione del Consiglio comunale. Dopo lunghi lavori di costruzione, nel 1975 fu inaugurato il Centro autonomo giovanile (CAJ), che fino ad oggi è rimasto un luogo di attivismo politico e di cultura alternativa.

Scuola di democrazia

Dal profilo giuridico, il CAJ di Bienne è gestito da una normale associazioneLink esterno svizzera con statuti, ma internamente si basa ancora sul “Manifesto CAJ”. La “assemblea degli utenti”, ossia la base democratica, si riunisce ogni martedì sera e discute il programma d’attività.

La cupola all'interno della quale c'è il centro autonomo giovanile di Bienne.
Il Centro autonomo giovanile di Bienne oggi.

(Keystone)

Il movimento del CAJ è sinonimo di autodeterminazione in tutti gli ambiti. Anche la sfera del divertimento non dovrebbe essere consumo puro, ma dovrebbe essere frutto del lavoro comune. Lì sono state create micro-democrazie temporanee e caotiche, in cui si amministravano autonomamente degli spazi separati. Per molti, il 1968 fu quindi anche una scuola di democratizzazione, nonostante tutti i discorsi sulla rivoluzione.

(Traduzione dal tedesco: Sonia Fenazzi)

http://www.swissinfo.ch/ita/centri-autonomi-giovanili_quando-la-giovent%C3%B9-svizzera-fond%C3%B2-il-proprio-stato/44221164

Lo spazio elettorale e il nulla politico

Dunque per ora lo spazio che si è aperto corrisponde ampiamente al nulla, al vuoto da cui la natura rifugge, ad aspirazioni e idee che non riescono a venire da galla, sommerse come sono dai detriti del passato.

il Simplicissimus

miserie-del-tempoStiamo guardando un telefilm, anzi un episodio di quelle serie noiose serie ospedaliere dove la sanità diventa qualcosa di radicalmente diverso da ciò che è in realtà e nelle quali vedremo probabilmente in futuro lo stesso Renzi in crisi da visibilità: c’è una equipe di informatori che dopo i ballottaggi grida “lo stiamo perdendo” e tenta di rianimare un soggetto talmente morto da essere stato sconfitto persino nelle sue cittadelle clientelari: Siena, città del Monte Paschi, valga per tutte. L’accanimento terapeutico di tv e giornali, nel far pensare che un soggetto politico morto come il Pd sia in realtà ancora vivo, seppure malconcio, deriva dal fatto che la razza padrona locale aveva individuato nella creatura di Veltroni l’attore ideale per una fuoriuscita alla chetichella dalla socialdemocrazia e l’approdo verso l’eurismo mercatista mentre ora si ritrova con niente in mano e con una grande incertezza dopo l’esperienza col cialtrone di Rignano.

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Propaganda

Inviato a raccontare la cerimonia di apertura e l’incontro inaugurale dei Mondiali 2018 fra Russia e Arabia Saudita, Aldo Cazzullo si è piuttosto esibito (vedi “Corriere della Sera” del 15 giugno) in quello che, senza eccessive forzature, si potrebbe classificare come un esempio di propaganda di guerra nell’epoca in cui la guerra si combatte (almeno per il momento) sui media più che sul campo. Per giustificare tale affermazione citerò alcuni passaggi significativi dell’articolo in questione. <<Ieri i russi hanno acclamato il loro capo, interrompendolo con un’ovazione nonostante il discorso né breve né brillante>> (notare l’uso del termine capo al posto di presidente e l’allusione al servilismo di un popolo che plaude al duce a prescindere dai contenuti del discorso). <<Gli unici fischi vengono dal settore della stampa>> aggiunge l’autore poche righe sotto (il popolo è bue ma a noi giornalisti non la si fa).

Segue la sarcastica descrizione di una tribuna d’onore che <<sembra un vertice di partiti fratelli dell’Unione Sovietica più che una vetrina del mondo libero>>. A parte la qualifica di <<mondo libero>> (riferita a quelle nazioni occidentali che appoggiano il regime neonazista di Kiev; hanno negato al popolo greco il diritto di decidere democraticamente del proprio destino; dichiarano, con le parole del commissario europeo al bilancio, che <<i mercati insegneranno agli italiani come votare>>; contestano ai cittadini “incompetenti” il diritto di decidere su temi “complessi” come la Brexit, il referendum italiano sulle riforme costituzionali, ecc.), l’elenco dei “nemici” totalitari e antidemocratici  comprende: i leader delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, il <<caudillo rosso>> Maduro, nonché l’ex leader socialdemocratico Schroder (<<ormai un famiglio>>). Quanto al principe ereditario saudita (esponente di un regime liberticida tenuto in piedi dalle potenze occidentali!) è lì <<per concordare con Putin il calo delle estrazioni di petrolio in modo da far ulteriormente aumentare i prezzi>>. E qui si tocca il nervo scoperto: il nemico non si definisce in base all’ideologia (a Davos il presidente cinese è stato applaudito come paladino del libero mercato globale) ma allo scontro di interessi (l’affacciarsi della Russia sul teatro mediorientale mette in discussione la secolare egemonia occidentale).

Nel vecchio Corriere – ai tempi in cui la stampa non era ancora ridotta a volgare coro del pensiero unico neoliberista – il compito di parlare senza ipocrisie dei conflitti di interesse era affidato al cinismo disincantato degli Ostellino e dei Romano, oggi tocca all’ipocrisia di “firme” che dissimulano la posta in palio dietro le battute sul folklore: la statua di Lenin accanto ai marchi degli sponsor, Putin che canta (male) qualche nota de la Donna è mobile, gli spettatori obbligati a sfilare fra due ali di militari, <<tipo prigionieri di guerra>> (e qui l’ipocrisia si fa eccesso di zelo antirusso: qualsiasi altro Paese, in tempi di paranoia sul rischio attentati, avrebbe schierato migliaia di agenti e soldati per proteggere un simile assembramento di massa, ma se, malgrado tutto, si verificasse un attentato, scatterebbe immediatamente il coro delle denunce sull’inadeguatezza del sistema di sicurezza).

Finiamo con l’inno russo: musicalmente è meraviglioso ma, a parte le nuove parole, resta quello <<commissionato da Stalin in piena guerra mondiale>>. Insomma, l’accostamento fra Putin e Stalin (come quelli che. in un recente passato, accostarono senza vergogna Saddam Hussein e Milosevic a Hitler per giustificare i bombardamenti “umanitari” su Iraq e Serbia) è di rigore. Putin gode del consenso della schiacciante maggioranza del suo popolo? Ciò durerà solo finché <<la società civile non si farà sentire con maggior forza>>. Quale società civile? Gli oligarchi? Le infime minoranze filo occidentali?

Ma ha davvero senso parlare di propaganda di guerra? Non si tratta semplicemente di un brutto articolo, macchiato da un eccesso di tendenziosità? Purtroppo penso ci sia di peggio e di più. La martellante propaganda antirussa orchestrata dai media occidentali eredita argomenti e stile dalla vecchia propaganda antisovietica per costruire una narrazione che associa vecchia e nuova Russia sotto la categoria del dispotismo e della barbarie orientali; una mistificazione ispirata da una duplice paura: 1) quella per l’ondata populista che, assumendo il ruolo un tempo svolto dal blocco socialista, sfida il dominio delle élite finanziarie e delle caste politiche occidentali (sfida sempre più spesso rappresentata come un rischio di crollo della civiltà democratica e di guerra civile); 2) quella di una crisi geopolitica che rischia di sancire la fine della globalizzazione, ridisegnando i rapporti di forza fra Stati Uniti, Europa, Russia, Cina e una serie di potenze regionali (papa Francesco la chiama la terza guerra mondiale strisciante). E quando cominciano a spirare venti di guerra arriva puntuale la propaganda di guerra.

Carlo Formenti

http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=25323

Selvatico

Ricordate la copertina della decima edizione del Bundan Celtic Festival?

Nell’articolo di bondeno.com del 26 giugno 2014 (https://bondenocom.wordpress.com/2014/06/26/il-male-luminoso/) facevo notare il richiamo ad un’immagine maschile vicina all’archetipo del mondo selvatico e dei suoi abitanti .

In questi giorni , su “La Verità”, C.Risé scrive:

E il selvatico è custode dei confini. Dal punto di vista psicologico il confine è ciò che dà forma alla personalità, attraverso il riconoscimento dei limiti. Per questo una politica che non riconosce la necessità dei confini genera malessere e psicosi, perché spinge la personalità a perdere la propria forma e precipitare nel marasma. Lo abbiamo visto in alcuni “asili antiautoritari” post 68, dove l’abbandono di qualsiasi norma e autorità, praticato in sperimentazioni imprudenti, lasciava regredire i bambini in forme ormai schizofreniche. La lotta contro le forme tradizionali, sostituite da vuoti formalismi e codici comportamentali e linguistici, è uno degli aspetti più gravi della tarda modernità, cui la psiche reagisce oggi (non solo in Italia) con un ritorno alle origini della vita e al recupero degli interpreti archetipici dell’istinto. Senza confini, senza forme e filtri, l’identità personale non riesce più, letteralmente, a “poggiare i piedi per terra” (immagine che anche ricorre nei sogni e nei racconti), non ha più un territorio di appartenenza. E la propria terra viene quindi occupata da altri, per il principio dei vasi comunicanti. Non si tratta di una questione ideologica ma, appunto, di un semplice principio di fisica elementare. La presenza dell’antenato/fratello barbuto e selvatico, con la sua difesa dei confini, fa allora sì che venga riscoperto il sentimento della comune appartenenza al territorio, alla terra dei padri. La Patria, parola prima non più pronunciata e difficilmente pronunciabile, può così, sorprendentemente, tornare ad essere un sentimento comune, un dato identitario condiviso, un oggetto d’amore e di comunicazione. Anche un riferimento nelle scelte politiche, e un’indicazione di politica internazionale per i governanti, altro dato andato invece perduto in momenti di smarrimento dei confini, fisici (il caso del “Tirreno smarrito” dal precedente governo in un accordo con la Francia), psicologici e culturali. A volte basta un sogno. E qualcuno che lo interpreti, nella realtà. (1)

  1. http://www.barbadillo.it/75500-ii-caso-di-c-rise-se-salvini-e-lincubo-selvaggio-e-liberatorio-dei-prigionieri-del-pol-corr/

Ad ogni modo anche quest’anno si replica: http://www.bundan.com/

 

I disastri della finanza

Da troppo tempo prigionieri del pensiero unico liberista, non riusciamo a  vedere che le ferrovie sono il tipico settore (altri ce ne sono) dove il privato non può (e per chi scrive, non deve) sostituire lo Stato. Non solo perché il servizio ferroviario nazionale è ciò che si chiama “un monopolio naturale”. Né solo perché comporta una tale mole  di  investimenti in  grandi impianti fissi ed enormi infrastrutture  (gallerie, ponti, viadotti, distribuzione energetica)  addirittura secolari  “del tutto fuori dalle possibilità e soprattutto dagli interessi di qualsiasi privato, perché spese non recuperabili secondo una logica di impresa” o ammortizzabili in tempo perché un imprenditore umano possa cominciare a sperare di cogliere “i profitti”; impianti fissi che   sentiti  come equipaggiamento del territorio nazionale, che la generazione presente eredita dalle passate e che migliora per le future.

C’è tutto questo. Ma c’è un motivo più fondamentale, così  evidente che si ha vergogna a ricordarlo: “l’obbligo  istituzionale,  per lo Stato,  di fornire il servizio  alla intera comunità nazionale alle medesime condizioni”.

 Il dovere di dare lo stesso servizio a tutti i cittadini a prezzo abbordabili.

 

Ciò implica una mentalità gestionale del tutto diversa da quella che alimenta i “mercati”.    I profitti che la ferrovia  fa   sulla Milano-Roma,  dovrebbero servire a compensare e coprire le perdite del servizio offerto ai cittadini   sulla tratta   Gela-Canicattì allo stesso prezzo di biglietto, più o meno. Ovviamente, appena avviene la privatizzazione, i privati si appropriano della Milano-Roma, e lasciano allo Stato la Gela Canicattì. In generale, la chiusura delle stazioni  che perdono (le 400 stazioni chiuse in Germania), non fa che dimostrare che il “Mercato” scarica comunque sullo Stato (il contribuente) i costi, ineliminabili, del servizio pubblico; e  manca alle sue promesse  verso la cosiddetta “utenza”.  Allo Stato restano le perdite, ai privati i profitti.

Peggio,   la funzione di interesse “universalità e continuità” del servizio ferroviario viene tradita profondamente.   Trenitalia  vanta enormi profitti, tanto da lanciarsi in investimenti all’estero:  è una SpA, una “società per azioni” ma posseduta al 100% dallo Stato, che applica  le regole del “privato”: fra cui l’espulsione  del 43% della manodopera ereditata dalle FFSS.  Un “risparmio” che ha accollato come “spesa” allo Stato,   al quale  i  93 mila espulsi sono rimasti a carico, in qualità di pensionati.

L’idea liberista  assume che lo Stato “efficiente” deve essere gestito come un’azienda, precisamente un’azienda esportatrice.  Ma un’azienda non ha bambini da istruire, malati da curare, vecchi “improduttivi” da  mantenere, non può “esternalizzare”  questi che (per l’aziendalismo bocconiano)  sono “costi”. Anche se nella sua nuova versione imposta dall’ideologia corrente, ci prova seriamente –  minando le basi stesse della sua continuità storica.

La mentalità privatista, ossia egoista  e breve termine, non è quella che deve animare i responsabili dei servizi pubblici –   in cambio del loro stipendio sicuro, essi devono essere addestrati, in modo da esserne pervasi, da una visione severa ed alta, impersonale, del loro compito.

Come grandi private  esprimono una “cultura aziendale”, esiste una cultura statuale,  che implica un senso della dignità propria e del compito, qualcosa che per forza bisogna chiamare sennso della patria e responsabilità verso i concittadini.  Oggi questa cultura è stata irrisa, e anzi distrutta da cose come il diritto di sciopero e di associazione sindacale nel pubblico impiego, una aberrazione che ha riflessi psichici e nello scadimento morale dei dipendenti.  Ancor ieri, non era così. La divisa dei ferrovieri, come dei  militari  (ma  anche degli scolari come la  toga dei giudici, e  in certi Stati l’uniforme  anche degli alti funzionari) esprimeva appunto questa etica,  il rivestire la persona privata della sua funzione  pubblica,  e cancellarvela.

La funzione consiste(va) nel  proteggere il cittadino – il povero e l’indifeso – precisamente dal “mercato”, e dalla diseguaglianza che produce.

Pietro Germi. Il Ferroviere”

Nelle situazioni belliche, la cosa è evidente,  quando la mentalità “privata” e di mercato  è solo di disturbo, eversiva e immorale  – e bisogna far funzionare i treni  sotto le bombe, la logistica,   la distribuzione di energia,  la riparazione delle infrastrutture danneggiate,   e     persino la distribuzione della posta, costi quel che costi.  Il caso  estremo è il tesseramento alimentare, il razionamento  statale  del  cibo scarso: tipicamente, il “mercato libero” viene abolito d’imperio; diventa”mercato nero” ed  un delitto  passibile di fucilazione.  Non si considerano le eventuali inefficienze delle  tessere annonarie, il  “costo” del prezzo calmierato; tutto vale purché si impedisca ai pochi di spanciarsi mentre il resto del popolo muore di fame. Evidentemente qui è in gioco qualcosa di più morale e fondamentale  della”libertà” privata.

Ma  anche in situazioni più normali, è interessante constatare come l’opera dell’uomo di Stato consista nel sopprimere il mercato, o nel ridurne l’impatto. Enrico Mattei, quando stringeva accordi decennali con l’Iran o l’Algeria, sottraeva l’Italia, ma anche il paese produttore, alle variazioni imprevedibili e nevrotiche del mercato “spot” del petrolio: le due parti stabilivano un prezzo medio ed equo, conveniente all’Italia  ma anche (soprattutto) al paese produttore, che poteva contare così su introiti certi e prevedibili  per i suoi piani di sviluppo, e sottratti alla speculazione e ai ricatti  delle Sorelle – e del potere finanziario che sempre le accompagna, quando i “mercati”  offrono al paese in difficoltà per mancanza di fondi, perché il petrolio è crollato, di indebitarsi…ciò che finisce regolarmente con l’esproprio, da parte del capitale,delle ricchezze del paese indebitato, che si ha cura di rendere insolvente.

I generi essenziali di prima necessità vengono, quando occorre, sottratti al mercato. Fra questi, l’emissione monetaria:  tale era il “matrimonio” fra Tesoro e Banca d’Italia di prima del 1981 (o di qualunque altra banca centrale nelle altre nazioni), per cui questa era obbligata a comprare i Buoni del Tesoro eventualmente invenduti sui “mercati”. Ciò calmierava gli interessi richiesti  dall’usura internazionale, salvò dall’aumento  del debito pubblico  e salvaguardava l’autonomia politica  nazionale, consentiva di fare politiche di pieno impiego (a prezzo di un po’ d’inflazione) e  non mancare dei fondi per programmi infrastrutturali – che mai il “mercato” farebbe, richiedendo investimenti grandi e di lunga durata.

La ratio etica, se volete, era che il lavoro del popolo (perché “il denaro comanda lavoro”) non poteva essere  abbandonato alle mani della speculazione straniera assetata di rendimenti  immediati, e non all’interesse generale di quel popolo che indebita.  Sfido chiunque a sostenere che il sistema attuale di dipendenza dai “mercati internazionali” che giudicano il ostro debito pubblico, e del denaro creato al 98% dalle banche indebitando, sia meglio.

O come  amano dire i teologi del capitalismo finanziario, più efficiente. Un trentennio di  privatizzazioni  dovrebbe  averci finalmente fatto capire che “lo scopo della privatizzazione dei servizi pubblici non è mai stato ( neppure quello dei suoi più accesi zelatori) di migliorare il funzionamento dei servizi stessi, bensì di sostituirli con imprese aventi lo scopo di ricavarne profitto”.

E’ lo Stato che innova, non il Mercato. Esempio, lo smartphone.

Perdura invece il mito che lo Stato gestore sia burocrazia e spreco, mentre il capitale privato sarebbe il solo “creativo” e promotore di innovazione. E’  vero l’esatto contrario.   Guardate il vostro smartphone, che vi fa così felici. L’app che vi consente di trovare una strada in una città sconosciuta grazie a una mappa virtuale, nasce come apparato di guida dei missili da crociera.  Esso funziona solo grazie a certi satelliti artificiali geostazionari su orbite specifiche, che  nessun privato si è mai occupato di mettere in orbita, né di mantenerceli . La fotocamera digitale con cui vi fate i selfie da mettere su Facebook, è stata concepita per i satelliti-spia: mica era possibile che lanciassero i rullini fotografici  con il paracadute.  La miniaturizzazione che rende il vostro telefonino tascabile, è il risultato di ricerche per ridurrei volumi nei satelliti artificiali e nelle testate missilistiche. Tutto ciò  – come la stessa internet a cui lo smart è collegato –  è stato inventato e concepito non da privati, ma nei laboratori del DARPA ( Defense Advanced Research Projects Agency)  ente di Stato americano, del Ministero Difesa. Nessun privato avrebbe mai investito e rischiato i suoi amati capitali nello sviluppo di simili invenzioni, delle quali, prima, non c’era “mercato”.  Poi i tipi alla Steve Jobs sono diventati miliardari, mettendo insieme i risultati  delle ricerche militari in un  oggetto commerciabile  di successo; ma i veri geni che l’hanno inventato, sono degli sconosciuti signori  americani di una certa età, che godono di una pensione di stato appena dignitosa. Hanno lavorato alle dipendenze dello Stato, lo stato ha dato loro le istruzioni su quel che voleva, lo stato ha finanziato le loro ricerche, quelle riuscite e le molte fallite, a fondo perduto e senza la preoccupazione di ricavare un profitto.

https://www.maurizioblondet.it/lideologia-di-mercato-come-disastro-ferroviario/

RAI servizio pubblico?

La questione RAI è un problema politico e di democrazia di prima grandezza.

Dimostra come i cittadini siano presi in giro, e per di più con i loro soldi del canone, ricevendo invece di un pubblico servizio, l’arroganza della casta politica che esercita un potere assoluto, spartitorio, omissivo, diventato disinformazione di massa, estremamente simile alle televisioni private.

Questo sistema è irriformabile e solo una diversa visione del problema può portare ad un cambiamento radicale, che è vitale per la nostra democrazia che non possiede un contrappeso dalla parte dei cittadini, una “public company” televisiva, senza pubblicità, finanziata solo dal canone, dove i cittadini che lo pagano, siano i soli azionisti con il potere di eleggere il presidente (con tutti i poteri e responsabilità ), in regolari elezioni da abbinare alle politiche (canone pagato alla mano), tra personaggi indipendenti da economia, politica, religioni. Dura in carica 5 anni ed è rieleggibile una sola volta.

E’ necessario che sia dichiarato solennemente, chiaramente e giuridicamente, che la RAI è proprietà dei cittadini che autogestiscono, fuori dai partiti, una informazione che sia all’altezza di proteggerli da tutti gli inganni e imbrogli che il potere economico e politico tramano a loro danno, soprattutto per ciò che riguarda la salute, l’ambiente, l’alimentazione, l’economia e le banche.

Una televisione che ci parli della realtà e non sia portavoce delle ignobili balle che raccontano i politici e della pubblicità che ormai è il fattore dominante del pensiero unico edonista e consumista.

E’ vero che internet ha rotto il monopolio dei media e dato la possibilità a molti di far circolare il proprio pensiero, ma vi sono milioni di persone che si affidano solo alla televisione, e questi milioni sono decisivi per vincere le elezioni senza che mai sia offerto loro un punto di vista serio, documentato, indipendente.

Una testimonianza di grande maturità democratica sarebbe quella di abolire l’obbligatorietà del pagamento del canone, lasciando i cittadini liberi di decidere se sostenere o meno una informazione seria e indipendente, senza pubblicità di cui hanno diritto, come azionisti effettivi, di eleggere il presidente.

Sempre in nome di una democrazia più matura, sarebbe corretto che nessun soggetto, nè privato né pubblico, possedesse più di una rete nazionale, smantellando in parte il monopolio di Rai e Mediaset.

Paolo De Gregorio

Comunali 10 giugno

Ovviamente il non volersi legare al territorio penalizza il M5S e la competizione si disperde in liste civiche che si definiscono di centro-destra o di centro-sinistra; per dare uno spessore umano alla vicenda, riportiamo qui la lettera di un nostro migrante:

Gentile Nuccio,

mi chiamo Francesco e sono un ragazzo qualunque, un emigrato come tanti.

Qualche anno fa, per l’ennesima volta, ho fatto le valigie, ho recuperato il recuperabile, e sono partito per l’altrove. Quell’altrove, l’ultima volta, si è chiamato Messico, ed è una questione piuttosto lontana; complicata.

Non mi soffermerò sulle ragioni della mia partenza, del perché io sia qui nel momento in cui scrivo. Cercherò invece di mostrarti un punto di vista lontano; cosa si aspetta uno come me – che ha viaggiato molto e che ha avuto l’opportunità di confrontarsi e crescere con altri mondi – dalla sua città natale, nel prossimo futuro.

Come vorrei dunque la mia città quando finalmente ci farò ritorno? E il futuro, quello che di rado viene nominato, che faccia esattamente avrà?

Sono delle belle domande, piene di insidie, ma anche gravide di sogni. Gli stessi sogni che sono stati estirpati, sul nascere, alla mia generazione, prima ancora di aver avuto la possibilità di giocarseli, prima ancora di lanciare i dadi in attesa di un verdetto.

Sono un sociologo, mi piace sentirmi così, anche se nella vita faccio altro… Ma leggo con estrema avidità, scrivo quando posso, rifletto da quando ne ho memoria, e non smetto mai di essere terribilmente curioso su ciò che mi circonda.

Il “ciò che mi circonda”, oggi, è un qualcosa difficilmente definibile, e dai confini labili. Ospita il reale, certo, ma anche quell’altra enorme fetta che è il virtuale: privo di pause, senza attrito, con una caterva di immagini e video seducenti senza fine. Da lì, giocoforza, ho incominciato a sintonizzarmi sui primi dibattiti monopolitani; sulla tua figura pubblica, che pian piano emergeva come indiscussa protagonista di momenti partecipati, di volti e strette di mano concitati che cercavano di dare un nuovo senso alla politica. E poi, l’inizio della campagna elettorale, una folla insperata ad aspettare il tuo primo discorso; il prologo della musica, lo sventolio delle emozioni che albergavano in un’atmosfera sospesa e limpida, come se quelle persone si trovassero tutte raccolte nel bel mezzo di un momento religioso, che si faceva civico, che si faceva comunità.

Ecco, questa è la parola che più mi piace, “comunità”: avere qualcosa di comune da curare nelle diversità di ognuno; sapere che le diversità non sono il nemico, non sono il fantoccio su cui sfogare le proprie frustrazioni, ma sono il punto di partenza. E tutto questo presenta diverse e importanti implicazioni con la tanto sbandierata “libertà”. Riprendendo le parole di un mio professore che faccio mie, “senza gli altri, senza il contesto nel quale ognuno di noi è collocato, non si può essere liberi. L’altro non è soltanto un limite della mia libertà, ma anche la condizione che la rende possibile. Impariamo la libertà solo se qualcuno ci educa a essa.”

Educazione, libertà, senso civico, comunità, legame sociale, partecipazione, relazione, identità individuale e collettiva… Ho avuto la fortuna di formarmi in mezzo a queste parole, a questi concetti, a queste pratiche. La mia vita da studente che faceva pratica, ruotava attorno ad un contesto che lavorava e si batteva per il bene comune: per la vita buona, per una società decente.

Bologna, pur nelle sue mille contraddizioni, accoglieva ancora quel senso di responsabilità per la cosa pubblica, che drasticamente ha dovuto cedere il passo al settore egemonico della società: il mercato. E così non solo in tutto il mondo, ma anche a Monopoli, hanno cominciato a infiltrarsi le conseguenze di specifiche politiche che appartengono ad una visione della società per me completamente sbagliata, una società che si fonda sulla convinzione che l’intraprendenza individuale generi sempre benessere per tutti; una società che sperpera volutamente la credenza che bisogna lasciare libero il mercato affinché un contesto possa “rigenerarsi”. E che la rigenerazione sociale di quel contesto non è che una reazione automatica e “istintiva” alla ripresa economica. Nulla di più sbagliato. Questo provoca solo – come oggi è parecchio evidente – esclusioni di sorta, aumento delle povertà, emigrazione di massa, benessere per pochi.

Penso ad esempio al centro storico di Monopoli – mi dicono divenuto molto più caro rispetto a qualche anno fa. Potrebbe certamente essere accessibile per una camminata (seppur difficile nei periodi di flusso intenso), ma meno per una birretta da acquistare al bar; meno per viverci tranquillamente nel rispetto di tutti. La “gentrification”, “termine che indica l’insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un’area urbana”, ha cambiato il volto del centro storico, escludendo, con prezzi alti, chi prima ci abitava, e ospitando capitali “colonizzatori” che arrivano dall’esterno, che arrivano dal “globale”.

Ecco, al mio ritorno, vorrei abbracciare una Monopoli più inclusiva, non una meta turistica esclusiva. Vorrei che le influenze del globale siano gestite e amministrate per dar lustro a un cotesto locale identitario, e non a un nonluogo della “movida” privo di riferimenti, sradicato da qualsiasi rapporto con il contorno sociale. Vorrei una Monopoli più giovane, con più bambini, con più giovani coppie. Vorrei che i giovani contassero per davvero, e che questa frase non sia un mero slogan. Vorrei che l’economia e il sociale viaggiassero su binari paralleli, e che avessero la stessa importanza nella differenza delle loro pratiche. Vorrei la tradizione come traccia significativa per l’elaborazione sensata di un presente nuovo, non un presente allucinato e preda di un futuro che non c’è.

So che molte delle cose di cui parlo non sono altro che il precipitato di dinamiche sistemiche difficilmente controllabili, ma come ci insegna la grande sociologa ed economista Saskia Sassen, quello che noi chiamiamo globale consiste anche di specifici contesti locali che si aprono, che immettono nella rete globale significanze particolari, contributi singolari, modelli di prassi.

Quello che mi auguro per la mia città è che diventi un laboratorio di buone prassi dove uno spirito rinnovato di collaborazione sappia pazientemente tessere reti, e dove tutti i suoi protagonisti – il cui più importante è il cittadino – sappiano gestire, nei loro singoli saperi, la cultura comune di un coordinamento necessario.

Anche da lontano ho provato ad immaginarmi lì, di provare le stesse emozioni dei presenti di quel primo comizio che hai tenuto. Forse mai, prima di allora, la politica locale ha saputo trasmettermi qualcosa. Spero siano illusioni positive, come la luce intermittente delle stelle.

Un caro saluto e un grande in bocca al lupo,

Francesco Paolo Cazzorla

Il suo paese di origine è Monopoli e nel link sotto i risultati elettorali definitivi, dal momento che ha vinto col 56% il candidato di un’altra lista

http://www.baritoday.it/politica/elezioni/comunali-2018/monopoli-risultati-amministrative.html

Cambio di paradigma

Non sono di quelli che fanno risalire tutti i disastri al ’68 , anzi, però vedo finalmente qualcosa di nuovo apparire all’orizzonte: oggi è l’atteggiamento verso l’invasione dei “migranti” , di cui avevamo ampiamente scritto (invano) in un ampio dossier

https://terzapaginainfo.wordpress.com/migranti/

Non mi illudo certo che il nuovo governo abbia le chiavi per il cambiamento: troppe sono le forze che remano contro, probabilmente anche al suo interno, tuttavia il caso gli ha dato un’opportunità.

Noi registreremo gli eventi sperando che gli italiani sappiano riconoscerli,  nonostante la sistematica distorsione che ne fanno i media,  ancora tutti in mano ad una sola parte, la stessa di sempre.

Magari provate ad usare i nuovi media (compreso bondeno.com) in maniera più assidua e partecipativa fintanto che il processo avviene e gli attori si adegueranno al nuovo copione.

https://www.facebook.com/groups/afenice/

 

La timidezza di Conte

Fonte: Il manifesto

C’è un doppio standard nell’Alleanza Atlantica e abbiamo paura a dirlo: la cancelliera Merkel può raddoppiare il Nordstream 2, la pipeline del gas con la Russia, mentre il Southstream con Mosca dell’Eni-Saipem fu fatto saltare dalle sanzioni per la crisi Ucraina e l’annessione della Crimea nel 2014.

I senatori italiani come i cani di Pavlov: è scattato immediato l’applauso dell’aula appena il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha pronunciato la formula rituale della consunta repubblica del Belpaese: “La convinta appartenenza all’Alleanza Atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato”. Da buon cerchiobottista, per tranquillizzare lo scalpitante Salvini, ha strappato un altro applauso quando ha annunciato che l’Italia promuoverà “una revisione del sistema delle sanzioni alla Russia”. Tanto sappiamo perfettamente che mentre il pilastro Nato non si scalfisce, per rimuovere le sanzioni europee a Mosca ci vuole ben altro che l’iniziativa italiana.

A sette anni dalla caduta di Gheddafi non si trova in questo Paese un uomo politico al governo che dica chiaramente chi ci ha messo nei guai: la Francia, gli Usa, la Gran Bretagna e la Nato, che avevano persino minacciato di bombardare i terminali dell’Eni. In poche parole nessuno è in grado di riconoscere che la guerra in Libia del 2011 è stata la peggiore sconfitta italiana dalla seconda guerra mondiale. Con Gheddafi sei mesi prima avevamo firmato contratti miliardari e l’accordo sui migranti, diverso ma non troppo da quello che la Germania ha voluto fare con Erdogan per i profughi siriani.

Mancando un minimo di analisi non si è quindi neppure in grado di trarre delle conclusioni di politica estera che abbiano una qualche rilevanza effettiva.
Si continua a girare intorno al problema: sono i nostri alleati che ci hanno destabilizzati. A questo si aggiunge la grave insipienza di accodarsi nel 2011 ai raid della Nato contro il regime libico: ne fossimo stati fuori oggi avremmo qualche argomento in più da giocarci.
Ma il premier Conte che pure ha parlato un’ora e mezza questa sintesi di poche righe non può farla: i nostri governi cambiano soltanto per restare ancorati sempre alla Nato, anche quando che ci bastona. Questo non significa uscire dall’Alleanza Atlantica, il passaporto che ci consente di vendere le armi della nostra industria bellica, ma almeno segnalare che non si è troppo contenti di come sono andate le cose.
Quanto agli Stati Uniti saranno pure un alleato privilegiato ma non hanno detto una parola quando Erdogan ha bloccato la nave Saipem che andava a fare legittime prospezioni offshore a Cipro. E la Turchia, non dimentichiamolo, è un altro alleato della Nato, alla quale però non si possono muovere rimproveri perché ricatta l’Europa con i profughi e gli Usa sulla questione siriana, usando la sponda di Putin e dell’Iran.

Vedremo cosa si diranno Conte e l’ineffabile Macron che la scorsa settimana ha convocato un vertice all’Eliseo sulla Libia con quasi tutti i principali protagonisti segnalando la volontà francese di scalzare l’Italia dalla ex colonia: da difendere c’è per lo meno la presenza delle aziende italiane, dall’Eni alle piccole e medie che tradizionalmente lavorano sulla Sponda Sud.

http://www.barbadillo.it/75301-focus-esteri-di-a-negri-la-timidezza-del-premier-conte-verso-la-nato/

Nota: Sempre Macron , al G7 di questi giorni in Canada,  ha stoppato l’immediato consenso di Conte alla proposta Trump di riprendere la Russia (esclusa da Obama).

Putin comunque ha dichiarato superata questa alleanza e ha aperto stasera il summit dalla SCO

Trasporti

Anni fa, scrissi per le edizioni Macro un libro sui trasporti (2) che venne pubblicato solo in formato pdf poiché l’argomento, di sé, non richiama molti lettori: perciò, qualche consiglio mi sento di poterlo dare. Mi sa che qui, ad essere relegati in un angolo, sono sia i ministri e sia gli scrittori.

Ciò che rimane del “Corridoio 5” europeo è una triste realtà per l’Italia: gli autotreni partono dalla Spagna diretti in Ungheria, Romania, ecc (e viceversa) e finiscono per transitare su una delle autostrade più neglette d’Italia: la Ventimiglia Genova.

Progettata negli anni ’50 del Novecento per un traffico prevalentemente turistico, oggi è giunta al parossismo: vista l’impossibilità d’allargarla (corre in mezzo alle case per 30 chilometri in area urbana a Genova) spesso la sicurezza è solo un optional: nel tratto urbano di Genova mancano addirittura le piazzole per la sosta d’emergenza. Basta un’automobile che si rompe e capita il finimondo.

Ma i veri “finimondi” succedono ogni due per tre con il traffico degli autosnodati che non rispettano minimamente i limiti di velocità: la soluzione sarebbe semplice. Copiando dai vicini francesi, sistemare degli autovelox uguali a quelli d’oltralpe: 80 Km orari, senza tolleranza, ossia ad 81 sei già “beccato”.

Questo perché gli autotreni hanno (obbligatorio per legge) un limitatore che tiene automaticamente il mezzo sotto gli 80 Km/h: il problema è che, gli stessi elettrauto che lo installano, sistemano pure un pulsante nascosto per bypassarlo. Solita storia di corruzione all’italiana: gli autisti (in maggior parte stranieri: rumeni, moldavi, lituani, ecc) semplicemente ne approfittano.

Alla prima multa non pagata dall’azienda, il mezzo verrebbe bloccato (sempre con sistemi automatici, ossia partirebbe una telefonata che avvisa l’azienda, con riferimenti al mezzo interessato) alla frontiera e se ne torna da dove è venuto: vedrà che si daranno una calmata e diminuiranno anche i numerosi incidenti – spesso mortali per gli stessi autisti e per il personale della Società Autostrade – che avvengono con una frequenza impressionante.

Questo per la fase d’emergenza, ossia per far rientrare nella legge chi della legge se ne fa un baffo.

Carlo Bertani

estratto da http://carlobertani.blogspot.com/2018/06/caro-ministro-toninelli.html