Non avete il potere, quindi…

Mancando queste  condizioni, significa che “Non si ha il potere”. Quello vero. Il potere su cui ti basi, Salvini, è   il favore degli elettori: favore molto condizionato – al successo che avrai o non avrai – e  cangiante come l’aria. I tuoi e nostri nemici, saldi in posti di  potere che non devono nulla al favore popolare, lo sanno benissimo. Lasciano che accumuli le figure da baùscia, che si stanno rivelando fanfaronate.

Le vostre forze? Avete una tale maggioranza parlamentare  da  approvare immediatamente leggi di vero risanamento dei guasti provocati d  Mario Monti, anzi dai Ciampi e Amato.

Per esempio: modificate il sistema di aste marginale, che ci fa pagare interessi del 3,5% a investitori che si sarebbero accontentati dell’ 1,45. Lo sapete o no che  solo con questo potete forse risparmiare un paio di miliardi, da usare  per le vostre politiche?

https://scenarieconomici.it/si-cambi-subito-il-meccanismo-dasta-dei-titoli-pubblici-di-f-dragoni-e-a-m-rinaldi/

Vietare le vendite allo scoperto, come ha detto Giorgietti. Siete o no  al governo? Vietatelo.

Altra cosa da fare subito: rimandare l’obbligo di fattura elettronica,  che vi alienerà il favore delle piccole imprese e degli artigiani.

Avete buoni economisti (migliori di voi), sia in parlamento eletti da voi, sia fuori che vi difendono in TV, come Rinaldi, o  sul Web, come Zibordi e Grossi: seguitene  consigli! Trasformateli in legge! Potete far cessare il saccheggio dei prestiti “andati a male” (NPL) che la BCE  obbliga le banche a svendere a 10 mentre potrebbero rendere 30, a fondi-avoltoio che poi prendono per il collo i debitori italiani,  strizzandogli il 50. E depredando loro, e la nostra economia.

Pensate alla responsabilità che avete di vincere, non solo per noi italiani, ma per tutti quelli che  all’estero, sperano nella liberazione dalla Prigione dei Popoli UE; il vostro fallimento farebbe cadere le speranze di tutti i movimenti populisti.

Non avete  idea di quante speranze state suscitando, fuori.

L’Italia dovrebbe condurre gli Stati membri fuori dalla distopia neoliberista dell’Eurozona

Scrive per esempio questo economista blogger.

Italy should lead the Member States out of the neoliberal Eurozone dystopia

 

In Francia i Gilet Gialli , hanno salutato l’inviata della RAI come un’amica. “Salvini, Salvini!”.

Dovete sentire questa responsabilità .

Invece per esempio, sul Brexit, vi siete schierato con la UE contro la May, dando ai criminali al potere a Berlino-Bruxelles una  unanimità contro Londra, che non ci fa gioco, e che potevate almeno farvi pagare a caro prezzo,  magari proprio con tolleranze sul deficit.

La lotta è solo all’inizio, sarà lunga, bisognerà stringere i denti, e tacere agendo. Siete circondati da nemici interni che sono più efficaci degli esterni, e non sapete liberarvene. Vi sarà  imputato, alla fine.  L’inefficacia in politica è peggio di un delitto.

Infine,un consiglio molto privato: non si faccia mai fotografare mentre mangia. Mai mentre assume un’aria minacciosa.  Mai a letto con la  Isoardi o qualunque altra (rischio-Berlusca).  Mai, mai e  poi mai permetta la  pubblicazione di una foto così:

La copertina del Time dedicata a Matteo Salvini. 13 settembre 2018. ANSA/ TIME +++ NO SALES – EDITORIAL USE ONLY +++

Specie da un medium che ha trattato  Monti così:

Assuma qualcuno che curi la sua immagine.  Dimagrisca. Mangi meno. E mai in favore di telecamera.

.

 

L’articolo SALVINI, OCCHIO AL RISCHIO-BERLUSCONI (imitarlo) proviene da Blondet & Friends.

Piccole manovre

Capite? I BTP Italia vengono trattati in banca come investimenti soggetti alla ridenominazione e quindi sconsigliati, perché all’Advisor (che è impresa e non più ente che crea moneta sul territorio per lo stato) non convengono. Anche se il “Bot People” insistesse, poiché l’Advisor non guadagna dal loro collocamento, l’investimento verrebbe veicolato verso strumenti ad alto margine commissionale.

Quelli di Banca d’Italia, per voce di Salvatore Rossi, sono arrivati a dichiarare di auspicare la morte del proprio tessuto produttivo, per la maggior parte a gestione familiare e con dimensione medio piccola, solo perché consente a Lega e M5S di vincere le elezioni:

“possono costituire un terreno, anche elettorale, di facile retorica sovranista”.

Il messaggio è chiaro:

“voi votate gialloverde, i gialloverdi si vogliono riprendere la Politica Monetaria e la Banca Centrale, noi faremo di tutto per farvi morire prima che ciò accada”.

Nel suo tentativo di eliminare PMI e Microimprese, Banca d’Italia serve non solo le Grandi Banche, ma anche il Partito di Confindustria (dove comandano il 2-3% degli associati, le aziende Global per intenderci). I piccoli possono togliere respiro (in un mercato interno asfittico ed in via di ulteriore restringimento) alle grandi imprese grazie alla loro proverbiale resilienza.

Capite dunque perché il Partito di Confindustria si è unito al Partito delle Banche nel fare opposizione interna ai gialloverdi?

https://www.maurizioblondet.it/germania-il-no-al-progetto-savona-avvia-litalexit-e-lopposizione-esce-di-senno/

Repetita (iuvant?)

di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi

Vogliamo dirlo chiaro e tondo: lo Stato italiano è vittima dell’usura. Gli interessi si cumulano sugli interessi e fanno crescere il debito anche se non ci si indebita più. Da 25 anni lo Stato non ha o meglio non avrebbe bisogno di indebitarsi perché incassa più tasse di quello che spende: nell’ultimo anno circa 30 miliardi di tasse in più delle spese, ma risulta in deficit di circa 40 mld l’anno perché paga circa 70 mld l’anno di interessi.

Questo succede dall’inizio degli anni ‘9O: da allora lo Stato ha pagato 2.500 miliardi di interessi, più del debito. Lo Stato ha un debito di circa 2.380 miliardi anche se da 25 anni non si indebita perché ha pagato ben 2.500 miliardi di interessi dai primi anni ‘9O. Questo è un caso classico di usura, l’incremento del debito dovuto solo all’accumulo nel tempo degli interessi e che diventa impossibile da ripagare perché gli interessi sono troppo alti.

L’aumento dello spread è un fenomeno di usura ai danni dello Stato. Ecco perché.

VITTIME DI USURA

Al momento un risparmiatore italiano che compri titoli di Stato guadagna, al netto dell’inflazione, più del 2% netto e se compra i Btp a 10 anni quasi un 2,5% netto più dell’inflazione. Nel resto del mondo chi compra i titoli di Stato oggi al massimo invece recupera l’inflazione (così in America) oppure perde ogni anno, se si considera l’inflazione (in Germania). Un risparmiatore tedesco che compri titoli di Stato tedeschi a 10 anni perde, al netto dell’inflazione, circa il 2% netto e se compra titoli a uno o due anni perde il 3% netto! In Germania i tassi di interessi a 10 anni sono infatti scesi sotto lo 0,5% (e quelli a 1 o 2 anni sono meno di 0%), e con inflazione intorno al 2%. Per cui lo Stato tedesco riduce il suo debito ogni anno, grazie al fatto che il risparmiatore che compri i titoli di Stato perde dal 2% al 3% l’anno, regala cioè una parte dei suoi soldi allo Stato. Questo succede perché la Germania ha poco debito pubblico? Balle. Lo stesso avviene in Giappone, dove con debito pubblico doppio di quello italiano lo Stato paga lo 0,1% in media con inflazione sopra 1%.

In Italia i tassi di interesse sui titoli di Stato a 10 anni sono saliti al 3,5%, livello pari a prima della crisi del 2008. Ma allora l’inflazione era intorno al 3% e oggi è intorno all’1% per cui questi sono i tassi più alti in termini reali degli ultimi 10 anni. Questo significa che chi mette soldi in titoli di Stato a 10 anni guadagna il 3,5% di un Btp contro inflazione all’1,2% ma lo Stato si svena. A questi tassi di interesse lo Stato deve far crescere i suoi incassi di tasse almeno dei 3,5% annuo solo per restare in pari. Se il Pil non cresce almeno del 3,5% (inclusa inflazione) il peso del debito aumenta.

Finanza predatrice

LO STATO NON E UNA FAMIGLIA

Mettersi in questa situazione è assurdo, perché lo Stato a differenza di una famiglia o impresa non è obbligato a indebitarsi, può emettere moneta. Che lo Stato debba avvalersi del potere di emettere moneta non è solo una tesi “poptilista”, ma quello che sanno tutti nel mondo finanziario. Standard & Poor’s, la società di rating, nel suo comunicato sull’Italia ha spiegato che «i rating degli Stati che hanno ceduto l’emissione della moneta e il controllo del tasso di cambio ad una Banca Centrale sovranazionale (la Bce…), secondo i nostri criteri sono uguali a quelli degli Stati che emettono debito in una valuta estera… i rating del debito pubblico emesso in valuta locale tendono ad essere più alti di quelli del debito in valuta estera, Standard & Poor dice che se uno Stato può emettere moneta ha un rating più alto di uno Stato che cede l’emissione di moneta a una Banca centrale sovranazionale come la Bce.

L’Italia, cioè, avrebbe un rating più alto se avesse la lira e il controllo della sua Banca centrale, che può emettere moneta.

Le società di rating dicono che è meglio dal loro punto di vista se uno Stato può stampare moneta e lo Stato italiano non potendo più farlo, a causa dell’ Euro, ha un rating più basso ora. Perché se puoi stampare moneta puoi sempre ripagare il debito pubblico che è nella tua moneta.

Fonte: Paolo Becchi

Piccoli maestri

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Dopo aver  letto la “mozione” degli studenti romani che hanno occupato il Liceo Tasso, dichiaro  che non solo ho nostalgia del ’68,  ma pure dell’Ugi e perfino della goliardia e delle “osterie paraponzi ponzi po”. Lascio da parte la critica stilistica. Pare il prodotto di Napolitano ragazzo prima dell’iscrizione ai Guf, ma già anticipatore  del burocratese costruttivo dei dirigenti allevati alle Frattocchie: ricordano energicamente, deplorano vibratamente, solidarizzano vigorosamente e così via.  O, peggio, la sceneggiatura di una zelante ex studentessa della Bocconi che fa il provino per una trasmissione di Santoro con l’inchiesta sulla scuola e sugli studenti di oggi, così carini, così collaborativi, così concreti, così piccoli Veltroni.

Chissà come saranno contenti i papà e le mamme dei rampolli del generone, a parte la preoccupazione perché in questi giorni piove e fa freddo e li avranno accompagnati col Suv a compiere questo rito di passaggio, magari con acconcio sacco a pelo di Loro Piana, compiaciuti perché hanno trasformato un atto illegale: l’interruzione di servizio che a generazioni precedenti costava sgomberi, qualche bussa e sette in condotta, in una scampagnata con i boy scout, alla cui disciplina si è formato il padre della Buona Scuola, della quale i riflessivi giovinetti sembrano non avere contezza, e che verranno premiati presto con un altrettanto educativo Erasmus purtroppo senza Tav, benché abbiano un intelletto da rape.

Perché l’aspetto più malinconico di questo documento fondamentale per capire che non abbiamo più speranza di sottrarci a un destino di servitù e soggezione a una ideologia che ha occupato ormai il mercato, la cultura, la politica  e pure all’immaginario, è la rimozione di quella fisiologica indole alla ribellione visionaria e alla contestazione degli idoli degli adulti che è sempre stata la cifra della giovinezza. I pompieri già da ragazzi del Tasso invece aspettano la benedizione del “corpo docente” per fare l’occupazione delle larghe intese, secondo una piattaforma programmatica messa a punto nel segno delle convergenze parallele: vediamo al contrario quest’occupazione come una piattaforma,appunto,  in cui noi studenti possiamo portare avanti un discorso di contestazione fondata sullo scambio tra di noi e sulla cultura portataci dai docenti.

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Imparare da Roma (antica)

Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili.  Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.
Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.

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Global compact

Dopo il fiscal compact arriva, puntuale come un cancro, anche il Global Compact. Gli italiani hanno imparato a diffidare dei “compact” che provengono da organismi sovranazionali e che, di fatto, comportano inaccettabili cessioni di sovranità nazionale. Fratelli d’Italia ha già depositato, a prima firma Giorgia Meloni, una mozione in aula per chiedere che l’Italia, unitamente agli Stati Uniti, all’Austria, all’Ungheria, alla Repubblica Ceca e all’Australia, anticipi la sua indisponibilità a sottoscrivere il Global Compact.

Oltre alla diffidenza per qualsivoglia compact arrivi da organismi sovranazionali, abbiamo ben altri e ben più motivati e articolati motivi per opporci al reticolato di impegni giuridici in materia di immigrazione e in materia di diritti dei rifugiati integrato dal Global Compact.

Districandosi nel lessico volutamente involuto e burocratico  delle cancellerie europee si scopre infatti, che il Global Compact pretende una ulteriore cessione di sovranità degli Stati nazionali sui temi dell’immigrazione e del diritto dei rifugiati.

L’assunto, apodittico ed indimostrato, del Global Compact è che l’immigrazione sia una manna per il paese ospite poiché fattore di aumento del benessere. Basterebbe già questo assunto per rifiutare la firma ad un trattato che, in realtà, è il manifesto ideologico degli immigrazionisti. In tempi di “manine monelle” verrebbe da rilevare le impronte digitali sul documento per compararle con quelle di Soros.

Ma v’è di più! Il documento, luciferinamente generico, introduce obblighi per lo Stato ospite di estensione dei diritti dei migranti indipendentemente dallo status di legalità dell’ingresso. Tradotto: una volta che sei arrivato, comunque tu sia arrivato, hai vinto la lotteria, perché lo Stato abdica al diritto di regolare i flussi! Basta? Certo che basterebbe, ma v’è altro!

Immigrati nei porti italiani in attesa di sbarcare

Immigrati nei porti italiani in attesa di sbarcare

Il documento prevede che l’assistenza “umanitaria” non sia mai considerata illegale dagli Stati: chi definirà cosa si intende esattamente per assistenza “umanitaria” e quale sia il suo esatto perimetro? Potrà uno Stato ancora definire il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina secondo parametri legali nazionali, non solo per fermare l’immigrazione, ma anche per contrastare chi favorisce l’immigrazione lucrando?

Abbiamo come l’impressione che a fronte delle legittime richieste dei popoli europei di controllo dell’immigrazione e di difesa dell’identità nazionale, gli organismi sovranazionali vogliano mettere le camicie di forze ai governanti. Sia chiaro che la difesa dei confini è sacra!

Giorgia Meloni contro l'immigrazione selvaggia

Giorgia Meloni contro l’immigrazione selvaggia

Giunga chiaro a tutti gli immigrazionisti che sono i popoli a decidere democraticamente la politica dell’immigrazione, sul presupposto che oltre un certo limite non vi è integrazione, ma banale invasione e sostituzione etnica. La democrazia, se volge lo sguardo a destra, fa paura a immigrazionisti e organismi sovranazionali. Fanno bene ad avere paura. Fanno male a pensare di poterci ingabbiare con reticolati di principi giuridici che esautorano la sovranità nazionale sul tema della difesa dei confini e delle identità nazionali.

Fratelli d’Italia ha, oggi, anticipato la battaglia, ora la palla passa al Parlamento che è sovrano e….vedremo se vorrà rimanere sovrano.

http://www.barbadillo.it/78870-lintervento-fratelli-ditalia-no-al-diktat-pro-immigrazione-del-global-compact/

La cartina di tornasole è la politica estera

Nulla ci vieta di fare alcune osservazioni critiche al governo in carica anche se consapevoli del fatto che l’unica alternativa sarebbe il Partito Democratico e/o Forza Italia, entrambi nemici di classe e del popolo sovrano.

Non sappiamo se la manovra economica del governo del cambiamento sarà veramente efficace, non abbiamo la certezza se questo governo sia veramente del cambiamento o avrà il tempo per tentar di cambiar le cose. Non sappiamo se riuscirà a risolvere il problema della povertà e rialzare il PIL. Non sappiamo neanche se basterà l’ottimismo o il deficit fissato al 2,4% per ridurre il coefficiente di Gini, quello che misura le disuguaglianze della ricchezza. Non sappiamo neppure se riuscirà a liberare la vita reale dallo spettro dello spread. Non sappiamo se avrà la forza morale per bandire quei tassi d’interesse da usurai che spezzano il popolo. L’economia, ed ancor meno la finanza, non sono una scienza esatta, anzi non sono neanche una scienza, anche se a questo mirano per sedersi poi sul trono dell’indiscutibilità divina.
Certo il governo definito populista e sovranista qualche grattacapo all’Europa delle banche lo ha creato, producendo un pericoloso precedente.
E’ bastato solo che qualcuno dal fondo degli ultimi banchi della classe reclamasse, anche se con aria un po’ sommessa a volte timida, che i compiti dati dai maestri erano insostenibili, e questi subito sono andati su tutte le furie, una lesa maestà, una bestemmia impensabile, ed allora giù con anatemi, richiami e strali avvelenati.
Certamente la sovranità di un nazione si raggiunge attraverso un percorso di grande difficoltà, ma con un po’ di coraggio bisognerà pur partire da qualche parte. Tutto sta però nello stabilire quale è il paradigma di riferimento e cosa noi consideriamo per sovranità. Negli ultimi decenni si è assunto come naturale un assurdo disumano che di naturale non ha nulla, un’insana perversione che ha scandito il tempo della nostra esistenza, capace di orientare ogni cosa che facciamo al fine di non irritare ed innervosire i mercati, mentre questi, i mercati, hanno potuto tranquillamente a loro piacimento, per vendetta o per capriccio, portare sul baratro una nazione sana, indipendentemente dalla sua operosità. Guardando le cose alla radice possiamo affermare sicuramente che la sovranità vera non può prescindere da quella monetaria. Il potere della moneta per l’esistenza di un nazione è così forte ed indispensabile che viene riconosciuto da chiunque sia in buona fede, indipendentemente dal suo orientamento politico o economico.
“Datemi il controllo della moneta e non mi importa chi farà le sue leggi”, scriveva Rothschild, così come il problema fu sentito nella stessa misura da Lenin, per non parlare di Ezra Pound.
Lasciamo stare questo gravoso problema della sovranità monetaria che, nel solo chiederci a chi spetta la proprietà dell’euro, produrrebbe una crisi d’astinenza ai poveri euroinomani, altro che piano B. Non chiediamoci allora a quale entità antidemocratica sono state affidate le chiavi di casa, della zecca in questo caso. Cosa rimane quindi come misura della nostra presunta sovranità se non la nostra visione in termini di geopolitica? Attraverso questa abbiamo l’opportunità, anzi l’obbligo di dichiarare al mondo chi siamo e cosa vogliamo. La politica estera è la cartina di tornasole per chi si batte per la propria e l’altrui sovranità. Chi crede in questa forma d’autogoverno, non può in questo ambito che affermare la propria multipolarità da contrapporre a chi della unipolarità ha fatto una ragione storica, il suo destino manifesto, e che dopo la caduta del muro di Berlino ha colto un segno della provvidenza per la sua realizzazione.
Dal suo insediamento con toni chiari il governo giallo-verde ha tenuto a sottolineare la sua vicinanza geostrategica agli USA, troncando ogni speranza a chi avrebbe voluto un disimpegno magari graduale dalla NATO, non solo per risparmiare quei 70 milioni di euro al giorno di spese militari, ma proprio per liberarsi da un alleato troppo ingombrante e premuroso.
E’ anche vero che si é parlato di revocare le sanzioni alla Russia, novità sul nostro piano politico, ma in questi giorni mentre gli USA hanno deciso di riprendere unilateralmente le sanzioni contro l’Iran (colpevole di esistere come la Siria o la Palestina) e tutti i suoi alleati saranno allora costretti a non acquistare più petrolio iraniano per non incorrere nelle medesimi sanzioni, nessuna flebile voce s’è levata contro un’altra guerra commerciale alla quale ossequiosamente ci accoderemo ancora una volta.
Si ha l’impressione che se riusciamo a parole (finalmente) ad alzar la voce contro la Troika, il senso di riconoscimento nei confronti degli Americani a stelle e strisce é ancora così grande che non ci permette neanche di dubitare mai del loro altruismo e della loro bontà. Riusciamo solo ad annuire, o quando pronunciamo parola é solo per promettere fedeltà eterna, foss’anche quella del premier Conte a Trump per sfavorire la Russia a vantaggio del gasdotto TAP.
Per non parlare di Bolsonaro, dove si chiude il cerchio in cui “di notte tutte le vacche sono nere” e sovraniste. Certamente gli entusiasmi e le congratulazioni sono state fatte a titolo privato da uno dei due vice premier. Comunque si è dimostrato soltanto o la propria malafede sovranista o peggio ancora di non rendersi conto della storia dei fatti per ignoranza o superficialità. Quale è la presunta sovranità che spinge a stare con chi ha nostalgia della più classica delle dittature sudamericane? Pur ammettendo che anche le dittature possono essere sovraniste, pensiamo a Cuba, è da sottolineare che molto peggio sono quelle che lavorano per la spoliazione del Paese per conto terzi. A quel tipo di dittatura, sempre incoraggiata sul piano militare e logistico dagli USA, è sempre seguito il più sfacciato programma di privatizzazioni sul modello dettato dai Chicago boys. Chi svende la propria Patria non sarà mai libero ne starà mai dalla parte del popolo, non basta vincere le elezioni.
I sovranisti in Sud America hanno avuto la tempra di una Evita Duarte Peron, di un Hugo Chavez, di un Ernesto Guevara, di un Salvador Allende, hanno nazionalizzato nell’interesse della propria terra per difendersi dal quel maledetto vicino. Bolsonaro è evidentemente dall’altra parte, vicino a Pinochet, a Faccia d’Ananas Noriega ed a Milton Friedman, questo un vicepremier sovranista lo dovrebbe sapere perché altrimenti i conti, non quelli della manovra ma quelli che valgono veramente per il bene del popolo, perché autentici valori, non tornano.
Lorenzo Chialastri

https://byebyeunclesam.wordpress.com/2018/11/08/la-cartina-di-tornasole-i-conti-non-tornano-ancora/

TAP

Fonte: Alberto Negri

Il caso del gasdotto TAP, che sta scuotendo Cinquestelle, governo e opposizione, è un mistero che si può risolvere con una telefonata alla Snam. Anche se questo non può certamente tranquillizzare la popolazione salentina interessata da un tubo che ha soltanto un metro e venti di diametro ma con molti risvolti locali, nazionali e di geopolitica.
Il TAP è uno dei capitoli più scottanti della “guerra dei tubi” – accompagnata da guerre vere – che coinvolge da anni Europa, Usa, Russia, Mediterraneo, Medio Oriente, Caucaso e le vie di rifornimento energetico. Ogni metro di tubo trasporta con il gas una goccia di sangue e di soldi.
Il consorzio TAP (Trans Adriatic Pipeline) ha la propria sede centrale a Baar, in Svizzera. Se dovessero esserci dei contenziosi ci si può rivolgere alla Swiss Chamber, che da sempre svolge funzione arbitrale il cui regolamento è stato messo a punto da una commissione guidata dal professore Guido Alpa, il méntore accademico del premier Giuseppe Conte. Non si può dire che su questo fronte siamo scoperti. Ma non c’è bisogno di andare per avvocati per scoprire un progetto di gasdotto che vede l’Italia coinvolta a livello istituzionale.
In realtà il premier Conte entra direttamente nella questione TAP per un altro motivo, ben più significativo degli arbitrati: a luglio durante la sua visita a Trump negli Stati Uniti ha impegnato il governo a realizzare il gasdotto, che aggira la Russia, in cambio dell’appoggio Usa alla conferenza sulla Libia del 12 novembre a Palermo. Insomma si tratta di una partita geopolitica di primo piano che riguarda la “protezione” americana a questo esecutivo. Gli Stati Uniti, tanto meno quelli di Trump, non danno niente gratis.
Gli azionisti del progetto TAP sono l’italiana SNAM (20%), l’inglese BP (20%) l’azera SOCAR (20%), la belga Fluxys (19%), la spagnola Enagás (16%), la svizzera Axpo (5%). Il TAP trasporterà dall’Azerbaijan dal giacimento di Shah Deniz nel Caspio circa 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale.
Quanto incide il TAP sui consumi italiani? Nel 2017 sono stati consumati da noi 75,1 miliardi metri cubi, l’80% è gas di importazione proveniente da Russia, Algeria, Libia, Olanda e Norvegia. L’interrogativo cui non è stata data ancora una risposta chiara è se i 10 miliardi di metri cubi di gas trasportati inizialmente dal TAP verranno “tutti” in Italia o in parte resteranno in Turchia o saranno convogliati nei Balcani e nell’Est Europa. L’impatto sarà maggiore negli anni a venire quando la portata verrà aumentata a 20 miliardi di metri cubi.
Eventuali penali riguardano gli azionisti del Tap e le aziende coinvolte nella sua realizzazione, pure sui costi di fornitura sono loro a dare delle indicazioni. Siccome la Snam italiana, controllata da Cassa depositi e prestiti, è azionista principale del consorzio alla pari con l’inglese Bp e l’azera Socar non dovrebbe essere difficile capire sia i costi di fornitura che eventuali penali in caso di mancata realizzazione del progetto TAP.
In poche parole gli italiani sono azionisti del TAP: se non sappiamo quanto costa, qual è il prezzo del gas e quali sono le penali questo significa che in questo Paese la mano destra non sa cosa fa la sinistra. Oppure qualcuno, e più di uno, ci sta giocando sopra.

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=61133

Dieci anni fa

42° rapporto Censis
Data: Domenica, 07 dicembre 2008 alle 10:28:58 CET
II dentista e la cena al ristorante sono irrinunciabili per gli italiani…
Le strategie cautelative delle famiglie.
Ben il 71,7% degli italiani pensa che il terremoto dei mercati finanziari potrà avere ripercussioni dirette sulla propria vita, solo il 28,3% dichiara che ne uscirà indenne. Nonostante le preoccupazioni, il 37% degli italiani pensa che la crisi potrebbe migliorarci, costringendoci a rivedere i nostri difetti; il 30,3% dichiara più cinicamente che, come sempre, ci scivolerà tutto addosso, e il 32,8% crede, più pessimisticamente, che la crisi farà emergere egoismi e interessi personali esasperati. Ciò che preoccupa di più tra i possibili effetti del credit crunch è il rischio di dover rinunciare in futuro al tenore di vita raggiunto (il 71,1% degli italiani). Se dalle aspettative, in gran parte condizionate dal quotidiano cannoneggiamento di notizie e prese di posizione ufficiali sulla recessione, si passa a valutare il numero di famiglie effettivamente interessate da fattori critici, lo scenario diventa più realistico. L’I 1,8% delle famiglie italiane (circa 2,9 milioni) possiede azioni e/o quote di Fondi comuni, soggette quindi all’alta volatilità del mercato borsistico, l’8,2% (circa 2 milioni) ha un mutuo per l’abitazione, ma solo 56.000 hanno saltato qualche pagamento e 193.000 hanno molta difficoltà a pagare le rate (250.000 famiglie nel complesso); il 12,8% (circa 3,1 milioni) usufruisce del credito al consumo. Tra le strategie per affrontare il difficile momento, il 33,9% degli italiani dichiara che intende risparmiare di più, cautelandosi rispetto agli imprevisti, il 25,2% sembrerebbe non avere altra strada più cinicamente che, come sempre, ci scivolerà tutto addosso, e il 32,8% crede, più pessimisticamente, che la crisi farà emergere egoismi e interessi personali esasperati. Ciò che preoccupa di più tra i possibili effetti del credit crunch è il rischio di dover rinunciare in futuro al tenore di vita raggiunto (il 71,1% degli italiani). Se dalle aspettative, in gran parte condizionate dal quotidiano cannoneggiamento di notizie e prese di posizione ufficiali sulla recessione, si passa a valutare il numero di famiglie effettivamente interessate da fattori critici, lo scenario diventa più realistico. L’I 1,8% delle famiglie italiane (circa 2,9 milioni) possiede azioni e/o quote di Fondi comuni, soggette quindi all’alta volatilità del mercato borsistico; l’8,2% (circa 2 milioni) ha un mutuo per l’abitazione, ma solo 56.000 hanno saltato qualche pagamento e 193.000 hanno molta difficoltà a pagare le rate (250.000 famiglie nel complesso); il 12,8% (circa 3,1 milioni) usufruisce del credito al consumo. Tra le strategie per affrontare il difficile momento, il 33,9% degli italiani dichiara che intende risparmiare di più, cautelandosi rispetto agli imprevisti, il 25,2% sembrerebbe non avere altra strada che un significativo taglio dei consumi; in pochi si dichiarano confusi e incerti sul da farsi (9,6%), oppure orientati a lavorare di più (7,4%) o a barcamenarsi cercando di spendere di meno (8,6%); solo il 3,8% dichiara che sarà costretto a intaccare i risparmi messi da parte e lo 0,5% che si indebiterà.
La temperanza nei consumi garantisce il buon vivere. Sempre più orientati alla liquidità, in fuga dal risparmio gestito, gli italiani ritengono che in questa fase i soldi vadano tenuti in contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o, al limite, vadano usati per cogliere una buona occasione sul mercato immobiliare in rallentamento (22,2%). Se proprio si deve investire, è meglio ricorrere agli inossidabili titoli di Stato (16,4%). La propensione alla cautela, spesso tacciata di arretratezza o chiusura all’innovazione, si sta dimostrando una polizza contro l’erosione delle risorse familiari. Infatti, per quanto riguarda i consumi, stime del Censis fissano in oltre 5,5 milioni gli «indenni», vale a dire gli italiani che spenderanno allo stesso modo usufruendo di un ampio paniere di beni e servizi (8 su 13 tipologie di consumo), all’estremo opposto, sono poco più di 880 mila i «penalizzati», che dovranno tagliare radicalmente i consumi rinunciando a gran parte delle spese. Mentre sono decisamente elevate le quote di italiani che definiscono irrinunciabili (mantenendo la spesa almeno agli attuali livelli) singoli settori di consumo: il cellulare (quasi il 59% degli attuali utilizzatori, oltre il 69% tra i più giovani, in totale 26,8 milioni di persone), una vacanza l’anno di almeno una settimana (53,7%, 21,1 milioni), l’automobile (50%, oltre 17,8 milioni), gli alimenti della propria dieta quotidiana (quasi il 48%, 23,2 milioni), le spese per le attività sportive e per il fitness (47,8%, 10,1 milioni), il parrucchiere e l’estetista (41%, quasi 18 milioni). Le spese per il dentista e le visite mediche specialistiche sono giudicate irrinunciabili dall’85,8% degli italiani. Quote inferiori, ma comunque significative, difenderanno l’abitudine di cenare al ristorante almeno una volta al mese (33,6%, 11,9 milioni di persone), le spese legate a hobby personali (35,9%, 9,3 milioni), l’acquisto di almeno alcuni capi di abbigliamento di qualità e/o firmati (25,1%, 8,4 milioni).
L’aciclicità del nostro sistema economico ci difende dal grande crack. In Italia quasi il 21% del valore aggiunto prodotto deriva dal settore manifatturiero, più del Regno Unito (16,6%) e della Francia (14,1%). Il 27,6% proviene dal sistema finanziario (banche, assicurazioni e altri soggetti di intermediazione), meno che nel Regno Unito (33,8%), in Francia (33,3%) e Germania (29,2%). Nei primi sette mesi dell’anno, inoltre, hanno continuato a crescere le esportazioni dei principali comparti manifatturieri: +31% i prodotti petroliferi raffinati, +11% quelli alimentari, +5,5% la meccanica. La struttura finanziaria delle imprese e il loro rapporto con il sistema bancario restano solidi. La dotazione in strumenti liquidi (biglietti, depositi e titoli di Stato prontamente liquidabili) è consistente, 252 miliardi di euro nella prima parte del 2008, oltre 1 miliardo in più rispetto alla fine del 2007. L’indebitamento delle imprese, cresciuto negli ultimi trimestri, a metà del 2008 resta al 75% del Pii (era il 68% a fine 2006), molto più basso che m Francia, Regno Unito e Spagna, dove si supera da tempo il 100%.
Sempre più player globali. L’industria italiana ha seguito un doppio binario di riposizionamento a livello globale: ha progressivamente accentuato la direzione orientale e mediterranea delle esportazioni, e ha esteso oltre il made in Italy la capacità di intercettare la domanda mondiale di beni. Nel periodo 2005-2007 il valore esportato dal made in Italy verso i Paesi dell’Unione europea è cresciuto dell’8,4%, ma spiccano i dati relativi ai Paesi di recente adesione, come la Polonia (+41,1%) e la Repubblica Ceca (+19,4%), e poi India (+61,6%), Egitto (+60,1%), Russia (+48,2%), Cina (+27,5%), Brasile (+25,9%). L’export dell’intero manifatturiero mostra livelli di crescita in valore anche superiori a quelli del made in Italy (+15,4% contro +12,2% a livello mondiale).
Da immigrati a nuovi italiani. Uno dei tratti principali della «seconda metamorfosi» italiana è costituito dalla presenza numerosa e attiva di nuovi cittadini che, pur nella diversità di provenienze, culture e linguaggi, hanno assunto ruoli, comportamenti e percorsi di vita non dissimili da quelli degli italiani. Solo vent’anni fa gli stranieri residenti erano appena lo 0,8% della popolazione, nel 1998 erano 1 milione di persone, mentre oggi sono ben 3,4 milioni. Ci avviamo a raggiungere la soglia del 6% della popolazione complessiva, ma nel Centro-Nord siamo già oltre: a Milano, ad esempio, a più del 13%, a Torino e Firenze al 9%. Si affermano modalità di integrazione tipiche del nostro modello di sviluppo: nella dimensione familiare e in quella micro-imprenditoriale. Oggi sono 1.367.000 le famiglie con capofamiglia straniero (il 5,6% del totale); aumentano i matrimoni con almeno uno sposo straniero (oltre 34.000, pari al 14% del totale); cresce il numero delle nascite di figli di stranieri (64.000, l’I 1,4% del totale dei nati in Italia, erano 33.000 nel 2003), la fecondità delle donne straniere (2,50 figli per donna) è doppia di quella delle italiane (1,26) e si attesta su valori simili a quelli dell’Italia del baby boom. Il numero di alunni stranieri presenti nelle scuole cresce al ritmo di 60/70.000 l’anno; appena dieci anni fa erano circa 60.000 (lo 0,7% del totale), oggi sono più di 500.000 (il 5,6% del totale, che sale al 6,8% nella scuola primaria). Nel 2007 le micro-imprese gestite da immigrati hanno raggiunto le 225.408 unità, con 37.531 imprese di extra-comunitari avviate nel corso dell’anno (+8% rispetto all’anno prima).
I rischi del lavoro all’ingrosso.
Si conferma l’aumento degli impieghi atipici, che oggi si attestano all’I 1,9% dell’intera occupazione. Ma il lavoro a tempo indeterminato rimane la modalità contrattuale privilegiata come garanzia dilaverò (è l’opinione del 42,5% degli italiani) e quella che da maggiore soddisfazione (66,1%). Il lavoro a tempo determinato, le prestazioni occasionali e le collaborazioni sono ritenute utili per offrire occupazione dal 41,9% degli italiani, ma se si parla di soddisfazione del lavoratore la percentuale crolla al 12,9%. Dal 2004 al 2007 le persone che non cercano lavoro perché temono di non trovarlo sono aumentate del 22,8%; coloro che non hanno un lavoro e che sono disponibili a lavorare sono diminuiti del 23,5%. Cresce cioè una sorta di scoraggiamento nei confronti della possibilità di occuparsi che coinvolge quasi 1 milione 400 mila persone.
fonte : http://www.censis.it

Il 2008 era l’anno della crisi dei subprime, da cui tutto ebbe inizio